Gianni Ferrero Merlino – In dialogo con l’artista

Andare alle origini del processo del vedere, della sua costruzione sembra essere sempre stato un punto fondamentale della tua ricerca, parlo del vedere non del guardare con tutto quello che significa ed implica, cioè il vedere come concettualizzazione primaria del mondo attraverso le immagini come interdipendenza di fattori psico percettivi di varia natura che stanno sul confine di un tempo inafferrabile tra sensazione visiva e visione immaginativa, percezione e apparizione, presente e memoria. Per fare questo ti sei servito della fotografia come strumento di indagine per capire le implicazioni di come funziona il nostro vedere proprio attraverso l’occhio fotografico e tutta la sua proceduralità, partendo dalla idea della immagine latente delle cose che si forma attraverso la superficie sensibile esposta alla luce. Quindi il vedere come visione materiale ed immateriale insieme che mantiene un tratto di imponderabile fenomenicità quasi magica. Ti chiedo quanto riscontri che influisca nel tuo nuovo processo artistico esplicitato attraverso il mezzo del disegno pittorico questa esperienza fotografica.

Mi viene in mente l’annunciazione di Tiziano, dipinta da Richter. L’annunciazione viene sfocata da Richter in cinque dipinti, con lo scopo di fare diventare la rappresentazione uguale a quello che si forma internamente a Maria come fenomeno e quindi la vita interna legata al corpo. L’annuncio del concepimento, rappresentato dal fascio di luce che l’arcangelo Gabriele proietta dentro Maria, vive nel suo corpo e si fa strada nel suo intimo per essere protetto e portato proprio come un figlio. E’ bello frequentare questi stati, della fotografia ho immediatamente considerato le sue proprietà scultoree, associandola così a questi stati del sentire.

Ad un certo punto nei tuoi ultimi lavori parli di Mythos e di una sorta di apparizione quella di Apollo che chiami amico. Quanto pensi possa essere importante per noi nel contesto contemporaneo ripensare alle origini della nostra cultura e come questa può avere ancora su di noi una fascinazione, una influenza, pur essendo ormai sepolta nei depositi della memoria e sovrastata dalla civiltà di secoli di pensiero filosofico, scientifico e tecnologico. In che modo, per quale strada valoriale pensi che il “mito” possa avere voce, aprire un varco di rigenerazione, proprio nel punto massimo delle nostre conquiste dell’infomatizzazione elettronica come quella dell’aver scoperto “l’intelligenza artificiale”

Mito credo sia il nome di tutto ciò che esiste, secondo me bisogna solamente sapere dove guardare. Se guardo alle sensazioni è li dentro, è l’universo della sensibilità. Il mondo emotivo è racchiuso in noi e noi in esso, non abbiamo alcun mezzo per agire su di esso e modificarlo. Appare e scompare in modo capriccioso. Io credo nell’esercizio e credo nel mito come incontro con la visibilità.

Apollo rappresenta solo la divinità greca dalle mille implicazioni, icona simbolo del protettore delle arti, o ha per te nel tuo ultimo lavoro e nella sua fenomenologia processuale una consistenza teorica più importante. Agisce cioè con una valenza di carattere esteriore riferita ai fatti del tuo lavoro artistico o agisce da dentro in qualche modo come una sorta di presenza vera e propria fantasmatica e alla fine di una concretezza quasi fisica a rappresentare la tappa del corpo che prende consapevolezza di sé, si rimpossessa di sé in una sua completezza.

Apollo è la fase dell’opera allo stato vivente, che non è mai conclusa, solidificata. Si manifesta sensorialmente come un tocco che diventa conoscenza.

‘Ho io senza saperlo toccato quell’Essere che si nasconde eccomi dunque più potente di me stesso,

Ecco mi trovo strano e venerabile Per me stesso,

Smarrito nell’anima e signore intorno a me! E tremo come un bimbo

Davanti a quel che posso!’

Anfione, Paul Valery

Ci sembra sempre di intravvedere in tutte le tappe del tuo lavoro una soglia tra luce e ombra, visibile invisibile, stato di veglia e coscienza, visione e realtà, verità e finzione. Ci vuoi parlare di questo senso dell’apparenza, di ciò che rimane latente nella esperienza del nostro vedere che serve a concettualizzare il mondo ma senza mai risolverlo in esperienza certa, data, razionalmente compiuta ma piuttosto sospesa, aperta e al limite di una possibilità, come appare bene nelle tue ultime opere quasi non finite e non casualmente.

Nell’esplorazione, nello stato mentale dell’aurora in quanto movimento, il sentire fa apparire la cosa riducendo la distanza che sembra separarmi dalla cosa medesima, come se riuscissi a raggiungerla nel suo luogo, ed è per questo che mi sembra di raggiungerla in se stessa, nell’opacità della sua presenza. Quando sono quello che vedo è come se mi stessi costruendo, quello che appare si sostituisce a me.

Il buio sembra avere un’importanza centrale nell’agire del tuo processo creativo disegnativo – pittorico, ci puoi spiegare il suo ruolo.

Il buio, oltre essere uno stato di calma, diventa uno spazio per gli occhi, un tutto per la mia capacità di vedere.

Nelle ultime opere, Apollo, ma anche in opere precedenti come Seraphita, il grigio domina i tuoi lavori che valore ha per te questo colore apparentemente neutro.

Il colore grigio porta con sé un particolare contenuto rappresentativo, questo colore è lo spazio per gli occhi, è una condizione più profonda di ogni profondità reale.

L’elemento fluido come l’acqua era presente in tuoi lavori precedenti, per esempio nelle opere Marmo, rimane qualche traccia di questi elementi anche solo a livello teorico nelle ultime opere.

La fluidità nelle opere di Marmo è latente, è quella che tocca e scompare. Marmo è il risultato di un calco del mare. Nelle ultime opere dipinte, l’olio contiene in sé quel particolare stato che si avverte quando si trascende da sé, che assomiglia ad una carezza interna, gli Apollo sono il risultato di questa epidermide rovesciata.

Quali sono le tue ascendenze artistiche e culturali più importanti. So della tua passione per l’artista tedesco Gerhard Richter e per il poeta simbolista filosofo e teorico francese Paul Valèry. Accenni spesso allo scultore Giacometti alla sua poetica del vuoto. Ci puoi accennare cosa di loro più ti ha affascinato e/o influenzato.

In loro c’è la capacità di visitare e presentificare gli stati più impalpabili dell’essere, la loro pratica è un esercizio rigoroso, in loro c’è la necessità di provare a comprendere ciò che è informe, ciò che non assomiglia a niente.

Tu dici di aver afferrato in questa ultima esperienza il modo di fare pittura secondo una processualità di cui hai acquisito consapevolezza e attinto di conseguenza una qualche certezza del fare, una qualche sicurezza anche senza alcun dogma o regola fissa. Ci puoi parlare di come avviene questo processo nei suoi step.

Nel dipingere ho capito che dovevo essere il più fedele possibile allo stato di domanda, mettermi in dialogo, quindi dipingo riproponendo il medesimo esercizio che ho quanto mi metto in ascolto delle cose nascoste.

Come poni dentro al tuo lavoro artistico la questione del tempo che viviamo cioè di un mondo da tanti punti di vista quasi capovolto ed esploso nelle pluralità di problelatiche che ci fanno intravvedere un futuro sempre più pieno di insidie e che sembra condurci, senza voler fare i catastrofisti, verso tempi difficili e in un certo senso distruttivi o perlomeno caotici. E come, o meglio, dove collochi l’arte contemporanea posta su un limite, ormai molto labile con la creatività diffusa, per identificarla.

Io credo nei dispositivi per mettersi in connessione con le cose assenti. Tutto il visibile è raggiungibile se diventa mito, mito che è appunto il divenire della visibilità, movimento veggente del corpo, tensione e passione con il maggior numero di connessioni e associazioni. Agire in direzione dei fantasmi, facendoli diventare carne.