Le immagini non bastano mai – 2018

Mostra fotografica di Christina Labey e Mette Juul, video di Sonja Lillebaek Christensen

In continuità con la mostra “Narrazioni sospese” in questa esposizione dal titolo “Le immagini non bastano mai” si dà spazio ad artiste che lavorano nella produzione di opere che integrano il racconto per immagini della fotografia o del video con procedimenti narrativi e materiali linguistici di diversa natura.

Il libro ad esempio è la prima e più importante dimensione formale del lavoro di Christina Labey, artista newyorchese che si dedica alla fotografia ed insieme alla creazione di libri d’arte e al graphic design. Labey. in occasione di una residenza artistica in Italia, ha prodotto una ricerca fotografica nell’area vesuviana. La sua opera parte da uno studio ed un lavoro rigoroso di raccolta di documenti d’archivio, di testimonianze letterarie e scientifiche di chi a vario titolo si è interessato all’argomento o ha scritto del vulcano. Da questi elementi l’artista crea una rivisitazione poetica con collegamenti ad immagini provenienti dal mondo lunare che spesso è stato paragonato, per analogie geologiche alla struttura del terreno vesuviano. Come sorta di sintesi dal complesso di riferimenti del libro d’arte che l’artista ha creato, è stata pensata la mostra fotografica con le immagini da lei direttamente scattate e quelle che ha tratto dall’archivio della NASA.

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Il lavoro della danese Mette Juul è solo apparentemente riconducibile ad istantanee di una fotografia di strada o di viaggio, scattate nelle sue escursioni nell’ovest americano. Sono spezzoni, frammenti di vita e realtà quotidiana i cui contesti socio-culturali ed ambientali hanno determinato l’interesse dell’artista, costituendo lo stretto rapporto delle immagini con la sua scelta, il suo personale punto di vista, e quella mediazione interpretativa che si fonda sulla struttura narrativa della foografia. Così spesso le sue fotografie di paesaggio, non disgiunte dalla presenza umana che ne sostanzia il senso, sono anche racconto di “verità esistenziale”. In diverse occasioni, come è stato nel caso dei lavori qui proposti per l’esposizione, Juul mette a disposizione, in una prospettiva relazionale, il suo archivio fotografico dal quale fa scegliere immagini ad un pubblico sempre diverso di fruitori, richiedendo la motivazione della scelta in rapporto ai sentimenti o alle realtà vissute, alle memorie che suscitano in loro. Da queste testimonianze, a sua volta, essa trova nuove possibilità per costruire un suo ulteriore mondo narrativo. Alla fine foto e scritti vanno infatti a comporre le sue pubblicazioni create tra il personale e il collettivo. La forma libro cui arriva la Juul è il risultato di un effetto moltiplicatore delle immagini: fotografia come racconto che si nutre di altri racconti, segni che vengono risignificati.

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Sonja Lillebaek Christensen , anch’essa artista danese, con i suoi video ricostruisce scenari di vissuto quasi come indagine su situazioni, condizioni o dinamiche comportamentali, in cui sociale e personale, individuale e comune, si confrontano e si confondono nel “farsi essa stessa parte dei suoi documentari”, per partecipazione diretta, ma anche “per il solo modo di guardare certe realtà” come in una una sorta di ” voyeurismo” o per l’espressione esplicita di riflessioni e commenti personali nel sonoro dei suoi video. Questo è l’esito di un processo artistico in cui essa si pone davanti all’ordinaria realtà quotidiana in una chiave diversa da quella meramente documentativa, dove spesso “il personale, il documentario, la finzione, sono integrati” in una intenzionale ambiguità. Soprattutto attraverso la mediazione dell’arte e delle sue narrazioni, l’artista va oltre al suo sguardo se pur non convenzionale sulla realtà, e apre nuove ed inaspettate prospettive di interpretazione e di racconto sui personaggi, gli ambienti e le situazioni concrete che normalmente rappresenta. In alcuni video poi, il “visto” lascia il posto ad un vedere mentale e immaginativo in modo più radicale. Nell’opera qui proposta, ad esempio, c’è il racconto tout-court e la sua proiezione interiore. Questa video installazione infatti traduce col filtro dell’arte visiva oltre che musicale-canora della colonna sonora la dimensione del vivere quotidiano, stimola la nostra immaginazione e ci restituisce una visione poetica di una prosaica vicenda di vita di coppia in cui emergono tensioni, pressioni, contrasti comportamentali.

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Mentre nei casi di Labey e Jull, il lavoro presenta valenze che lo avvicinano alle forme dell’ambito letterario, in Lillebaek, che si avvale del linguaggio video già strutturalmente narrativo, l’accostamento è anche all’ambito della scena teatrale. Nell’opera qui presentata infatti, così come in altre dove accompagna spesso la fruizione dello spettatore con l’inserimento di oggetti e l’allestimento di vere e proprie ambientazioni, l’installazione di elementi di arredo nello spazio della proiezione video è particolarmente congruo rispetto al contenuto della storia nel significare una presenza-assenza molto evocativa.